In pieno periodo di crisi e di profonda incertezza dei mercati e ancora di più in quello del lavoro, gravato dalla continue riforme sul piano legislativo, c’è una figura professionale peraltro sempre esistita che tende ad occupare sempre più posto nelle bacheche delle offerte di lavoro.
L’export manager nel mercato del vino
Parliamo dell’ export manager, ossia quella figura aziendale relativa all’area commerciale, preposta a rappresentare l’azienda all’estero, intrattenere rapporti con i clienti, procacciarli e più in generale rendersi responsabile della vendita dei prodotti nella sua area estera di competenza.
La situazione di crisi induce le aziende vittime della sovrapproduzione e della saturazione del mercato italiano a cercare clienti all’estero, ma non tutte le aziende sono attrezzate internamente per la cosiddetta internazionalizzazione. Si tratta di un processo oneroso, a volte unico sbocco possibile per prodotti che nel nostro paese hanno perso mercato da tempo, un esempio può essere rappresentato dal mercato dei gioielli e dell’oro lavorato. Per il mercato del vino l’esigenza di esportare il proprio prodotto non coincide con un fenomeno congiunturale è piuttosto una normale evoluzione del percorso aziendale. Detto questo, una volta che l’azienda ha preso coscienza che l’unico modo per poter garantire la propria sopravvivenza viene dato dai mercati esteri, si trova di fronte a una dura scelta per assolvere a questo compito: reperire il capitale umano internamente o reclutarlo esternamente? Oppure in altra ipotesi affidarsi a una agenzia esterna, specializzata nell’assistere le aziende in questo processo, fornendo personale e talvolta infrastrutture di rappresentanza.
Per questo motivo si è assistito a una fioritura di agenzie fisiche e anche digitali che offrono i più svariati servizi di questo tipo: oltre all’assistenza legale e fiscale estera, garantiscono approcci interculturali e conoscenza del territorio, fattori decisivi, a loro dire, per la buona riuscita degli scambi.
Si afferma così la figura dell’export manager a contratto, costosa ma necessaria soluzione per la sopravvivenza dell’organizzazione.
All’interno di queste categorie professionali è possibile operare una prima distinzione tra hunter e farmer. Ai primi spetta il compito esplorare nuovi mercati, procacciare nuovi clienti e fornitori e più in generale incrementare il fatturato d’impresa. I Farmer invece gestiscono un portafoglio già esistente, svolgono un ruolo di presidio, e devono saper anticipare possibili crisi. Una ulteriore distinzione sorta più recentemente è quella tra figure junior e senior, volta a valorizzare l’esperienza individuale.
La formazione dell’export manager
La formazione tipica per questo ruolo, di tipo universitario, è sempre stata quella a indirizzo socio-politico con specializzazione in relazioni internazionali. Questo un pò per la necessità di saper interpretare gli indicatori macroeconomici, ma anche per possedere nozioni di marketing e al dominio di una seconda lingua straniera oltre all’inglese. Per completare il quadro occorrerebbe anche una “infarinatura ” di contrattualistica, logistica e tecnica doganale. Materie più vicine al corso di Laurea in Economia e Commercio.
Tuttavia è possibile notare come questa inclinazione delle aziende stia lasciando posto a un’altra tendenza. Si ricerca sempre più personale con un background umanistico e interculturale, in particolare da parte di quelle aziende che percorrono già da anni la strada dell’internazionalizzazione.
L’impressione è che si stia formando una sensibilità da parte delle aziende, e anche degli analisti, che passa attraverso l’accettazione del fatto che per individuare partner commerciali duraturi occorra stabilire una comunanza, in primo luogo linguistica e culturale.
È vero che nei paragrafi precedenti è stato analizzato attentamente questo aspetto, e si è ribadita la qualità di questo approccio, ma si è anche visto come il mercato del lavoro a volte reagisca in maniera tardiva rispetto a queste trasformazioni.
E in particolare si pone un problema di sfondo.
All’interno di queste realtà, spesso costituite da PMI si celano industrie che producono macchine dall’alto contenuto tecnologico, destinate a loro volta a soddisfare segmenti intermedi nella catena economica produzione- consumo , esse si trovano riluttanti al reclutamento di personale privo di una formazione tecnica perché ritenuto non adeguato e a volte si rivela essere un pregiudizio corretto. Il mondo enologico non è completamente escluso da questo problema perchè se è vero che il vino richiede ottime doti da comunicatore altrettanto risulterebbero gradite solide basi di chimica per non fare brutte figure e adattare il linguaggio anche a interlocutori più tecnici.
Ancora una volta la luce in fondo al tunnel è data dalla formazione interdisciplinare, dal bagaglio di esperienze personali del candidato e soprattutto da una corretta informazione per orientare le imprese nella scelta.